Il datore di lavoro può utilizzare i dati che riguardano i suoi dipendenti
reperiti sui social network, anche grazie agli “amici degli amici” o ai
contatti in comune.
In generale, i tribunali considerano pubblico tutto ciò che si posta sui
social network e, pertanto, utilizzabile in giudizio, a esclusione delle chat
private. A maggior ragione se il lavoratore effettua l’accesso durante l’orario
di lavoro.
La privacy è violata solo se si compie una diffusione indebita, cioè per
scopi diversi dalla tutela di un diritto proprio o altrui, e si commette così
il reato di trattamento illecito dei dati personali (articolo 167 del Dlgs
196/2003). Dal momento in cui si pubblicano informazioni e foto sul proprio
profilo Facebook si accetta il rischio che possano essere portate a conoscenza
di terze persone non rientranti nell’ambito delle “amicizie” accettate dall’utente,
il che le rende utilizzabili anche in sede giudiziaria.
Anche il Garante della privacy (nota del 26 agosto 2010) e da ultimo, il
tribunale di Milano, con l’ordinanza del 1° agosto scorso, ha deciso che è
legittimo licenziare il dipendente che ha postato su Facebook fotografie
scattate durante l’orario di lavoro, accompagnate da post offensivi nei confronti
dell’azienda. Sembra crollare anche il principio secondo il quale ricade sul
datore di lavoro l’onere di informare il dipendente sull’uso corretto dei
social network in azienda. A prescindere dall’affissione del codice
disciplinare, l’utilizzo improprio dei social network può essere in grado da
solo di ledere il vincolo fiduciario con l’azienda e, quindi, di legittimare il
licenziamento.
È accaduto nel caso del poliziotto che ha postato foto con abiti femminili
(Consiglio di Stato, sentenza 848 del 21 febbraio 2014). In questi casi i
giudici sono chiari: se la foto lede il decoro dell’amministrazione pubblica
per la quale il dipendente lavora, il provvedimento disciplinare è motivato.
Maria Delle Cave
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