La Guardia di finanza, in base alle comunicazioni della società Alfa
s.a.r.l.
relative alla chiusura delle aste on line per le vendite effettuate
dal contribuente S. Paolo tramite il canale informatico E-Bay, aveva accertato,
per l’anno 2005, che il contribuente aveva effettuato vendite on line per il
valore complessivo, soggetto ad IVA, di euro 24.297,00.
Con sentenza della C.t.p. per il Lazio, Roma, n. 434/V/2013 del 25 luglio
2013, veniva respinto il ricorso di S. Paolo (con compensazione delle spese),
proposto avverso l’atto di accertamento di maggiore imponibile ai fini IRAP ed
IVA per l’anno 2005 (accolto solo quanto all’accertamento ai fini IRPEF).
L’atto di accertamento aveva preso a base il valore complessivo accertato
dalla Guardia di Finanza, soggetto ad IVA, di euro 24.297,00 e lo aveva
diminuito del costo, calcolato forfettariamente nel 20%, determinando un
imponibile per reddito di impresa di euro 19.942,00.
Con appello notificato all’Agenzia delle entrate-Direzione provinciale di
Roma 1, e presso la Segreteria della C.t.p. che aveva emesso la sentenza poi
impugnata, il contribuente Paolo S. chiedeva l’annullamento della sentenza.
Alla base del ricorso la mancanza di prova, in quanto i dati sui quali la
Guardia di finanza e l’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate avevano basato il
calcolo del volume d’affari, sarebbero riferiti solo alla chiusura delle aste,
elemento che di per sé non sarebbe sufficiente a dimostrare la vendita del
bene, in assenza di alcuna indagine sui tipi di bene venduti, sull’effettivo
pagamento del prezzo, sull’individuazione dei costi sostenuti, sui ricavi
conseguiti e sull’esercizio - da parte del contribuente interessato - di una
abituale attività d’impresa.
L’Ufficio si costituiva, rilevando che i dati forniti dalla società Alfa
sarebbero stati elaborati dalla Guardia di finanza in modo da evidenziare, tra
tutte le aste concluse, quelle presumibilmente non andate a buon fine (identificate
con quelle nelle quali non si sarebbe indicato il miglior offerente) e
decurtando dal prezzo di aggiudicazione delle aste il costo forfettario del
20%, al fine di determinare il reddito presuntivo e concludeva per il rigetto
dell’appello, con condanna dell’appellante alla refusione delle spese di
giudizio.
I Giudici della Commissione Tributaria Regionale di Roma hanno deciso che l’appello
è infondato, poiché la normativa sull’imposizione fiscale trova applicazione
anche in materia di transazioni effettuate tramite canali informatizzati,
purché ne sussistano i presupposti dell’abitualità dell’attività
imprenditoriale e della realizzazione di un volume d’affari (cfr. Cass. trib.,
sentenza n. 27211/2006).
L’accertamento di tali requisiti va effettuato con applicazione dell’ordinario
regime probatorio previsto per l’imposizione tributaria, e, pertanto, in
materia di omessa presentazione della dichiarazione fiscale, l’Ufficio deve
fornire sufficiente prova, anche indiziaria, dei fatti giustificativi dell’imposizione
ed il contribuente può contestare tali fatti sia nel procedimento, presentando
osservazioni al p.v.c, sia in sede contenziosa, producendo prova contraria ai
fatti accertati in quella sede.
In applicazione di tali criteri, i Giudici hanno ritenuto infondati tutti i
motivi di appello, dato che:
1. non sussiste il lamentato difetto di motivazione della sentenza;
2. la documentazione agli atti dimostra la sussistenza dei presupposti d’imposta
per IRAP ed IVA per l’anno 2005;
2.1. la mole delle transazioni proposte on line dimostra che l’attività di
vendita era effettuata dal contribuente in maniera non saltuaria od
occasionale, per esigenze di "cassa" (come nella fattispecie decisa
da C.T.R. Novara, Sez. I, sent. n. 179/2012), bensì in maniera sistematica; non
è tanto e solo l’ammontare in sé delle somme proposte in transazione, pur
rilevante per il 2005 (euro 24.297,20), che indica l’abitualità dell’attività
di vendita, ma anche la presenza di attività di vendita on line anche per tutti
gli altri anni oggetto dell’accertamento (2004, e successivi fino al 2009, con
importi diversi e anche notevolmente superiori);
2.2. come precisato dalla Corte di cassazione, "La nozione
tributaristica dell’esercizio d’imprese commerciali non coincide con quella
civilistica;
2.3.l’accertamento fiscale si basa su sufficienti elementi probatori,
indicati compiutamente sia nel p.v.c, comunicato regolarmente al contribuente,
sia nella motivazione dell’atto stesso.
Sostiene il ricorrente che la chiusura dell’asta non costituirebbe di per
sé prova del buon fine della vendita, dovendo questo essere provato solo con la
documentazione finanziaria, agevolmente disponibile in sede ispettiva dalla
Guardia di finanza. Rileva il collegio che, nella fattispecie, l’accertamento
non si è basato solo sul computo del valore delle aste chiuse, ma ha detratto
da quello il valore delle aste nelle quali non era indicato il miglior
offerente, che presumibilmente, pertanto, non sono state aggiudicate on line.
Per contestare tale percentuale, calcolata in via presuntiva dall’Ufficio,
il contribuente nulla ha prodotto né in sede procedimentale né nel presente
giudizio, limitandosi a contestare l’accertamento in punto di diritto ed
invocando una non corretta interpretazione della regola dell’onere della prova.
Se, da un lato, è vero che l’organo ispettivo avrebbe potuto acquisire più
compiuta documentazione bancaria a dimostrazione dei pagamenti, è però vero che
il contribuente stesso è in grado di procurarsi la prova documentale a suo
favore, potendo ottenere dalla società lo storno delle commissioni sulle
vendite non andate a buon fine, e produrre pertanto, nelle dovute sedi, la relativa
documentazione, come può anche produrre le fatture delle transazioni
(allegandone, all’Ufficio o al giudice, anche solo la prima pagina, sempre al
fine di proporre un principio di prova contraria a quanto accertato dall’Ufficio),
o, in alternativa, dato che, come lui stesso afferma, tutti i pagamenti delle
vendite on line si appoggiano su conti correnti, e dato che egli risulta essere
dipendente di un istituto di credito privato e, quindi, titolare di reddito da
lavoro, produrre estratto conto dal quale risultino i redditi derivatigli da
tale attività, che risultano su tale conto evidentemente differenziati rispetto
ai regolari accrediti della retribuzione, o estratto conto del diverso canale
bancario sul quale egli abbia introitato il corrispettivo delle vendite che
afferma effettivamente realizzate.
Viceversa, il contribuente non ha prodotto alcunché e neppure affermato
quale sia il minor valore complessivo delle vendite effettivamente andate a
buon fine. Atteso che non è certo plausibile che delle aste on line nessuna
abbia raggiunto il suo scopo, e che il criterio di quantificazione del valore
delle vendite utilizzato dall’Ufficio è congruo, come detto, al fine di
costituire una prova almeno presuntiva, è sul contribuente che, nella
fattispecie, grava l’onere di dimostrare l’assenza del presupposto d’imposta,
cosa che egli non ha fatto, non fornendo nemmeno un’affermazione o un principio
di prova atto a confutare la ragionevole presunzione dell’Ufficio procedente.
C.T. Reg. Roma 1.12.2014 n. 7194/1/14
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